Venticinque anni fa, il 6 gennaio 1993, muore Rudolf Nureyev, da tempo malato di una brutta malattia. Un personaggio ricordato da "Il giorno e la Storia", il programma di Rai Cultura in onda sabato 6 gennaio a mezzanotte, e in replica alle ore 5.30, 08.30, 11.30, 14.00 e alle 20.10 su Rai Storia.
A 19 anni, Nureyev e' gia' considerato uno dei piu grandi ballerini di tutti i tempi. Nel 1961, rifiuta il rimpatrio forzato da Parigi impostogli dal governo sovietico: rivedra' il suo Paese solo nel 1989. La sua carriera di stella del ballo continua travolgente in Occidente, prima con la compagnia del Marchese di Cuevas, poi con il Balletto Reale danese di Erik Bruhn e, soprattutto, con il Royal Ballet di Londra. Nella capitale britannica , Nureyev forma, con Margot Fonteyn, una coppia destinata a incantare il pubblico di tutti i teatri del mondo.
Purtroppo questo suo sogno non si realizzò mai per l'improvvisa scomparsa.
Gian Maria Talamo legge una lettera di Rudolf alle giovani danzatrici di Positano
"Era l’odore
della mia pelle che cambiava, era prepararsi prima della lezione, era fuggire
da scuola e dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci
fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo
permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consumate ai piedi, con
il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le
nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei
muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri
ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci
scambiavamo il sudore, i silenzi, a fatica. Per tredici anni ho studiato e
lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per
lavorare nei campi. Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo
perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere
altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi,
impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per
guardare allo specchio, per provare passi nuovi. Ogni giorno mi alzavo con il
pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo
tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con l’odore di canfora, legno,
calzamaglie, ero un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero
ovunque ed ero ogni cosa. Ricordo una
ballerina Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava
ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte
le audizioni, per lo spettacolo di fine coso, per gli insegnanti che la
guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il
concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui
sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per
sempre. Non resse la sconfitta. Era questa la differenza tra me e lei. Io
danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo,
la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere
abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia
vergogna. Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola,
studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché
era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria. Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi
che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi. Non ne
soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e
sentire il mio sudore uscire dai pori del viso. La mia sofferenza sarebbe stata
non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la
sublimazione dell’arte può dare. Ero pittore, poeta, scultore. Il primo
ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni
mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti,
nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di
dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come
nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me
importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa
che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi
raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu
diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era
solo una nube lontana all’orizzonte. Da quel momento la mia vita cambiò, ma non
la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre
nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri
più luminosi della danza.
La toma di Rudolf a Parigi (gentile concessione archivio Sergio Arci)
Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed
il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di
peso. Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza la mia libertà di
essere. Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio
dolore. Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi
seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al
di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica
ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi
sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico
piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il
significato è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo dovrebbe danzare,
per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.
Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di
legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre
bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della
vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui
desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo,
non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati
all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per
danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della
vita… " RUDOLF NUREYEV
Le allieve del Centro Danza Positano diretto da
Alessandra Ginevra all' isola de Li Galli
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