sabato 13 settembre 2008

STORIELLE NAPOLETANE di Giuseppe Fabbri


VIETATA LA RIPRODUZIONE anche parziale del racconto e della foto. Copyrigth di massimo capodanno & Giuseppe Fabbri

MUCILLO:
Quello che segue è un breve racconto di un personaggio del popolo partenopeo com’era una volta così pieno di calore, di simpatia, di pazienza e di umiltà; incredibilmente diverso da quello di oggi.
A Ennio Imbimbo, che, pur essendo napoletano e più vecchio di me, pur avendomi dato qualche chiarimento sui piedi di porco, tuttavia, non è stato esaustivo Corso Vittorio Emanuele a Napoli è una strada particolare che ha poco in comune con quello che normalmente s’intende per un corso cittadino.
E’ come un colpo di rasoio inferto a mezza altezza sul fronte della collina del Vomero e la mano del barbiere deve aver tremato parecchio se si pensa che la lacerazione prodotta è lunga più di 5 km.
Cinquanta, sessant’anni fa la si sarebbe potuta definire una strada a scorrimento veloce, oggi non è più neanche quello. Posizionata così com’è seguendo il profilo orografico del Vomero a quell’altezza ha, per lunghi tratti, gli edifici solo dalla parte di monte; dalla parte di valle, in quei tratti, è aperta come una terrazza sul mare.
Andando da Fuorigrotta verso Via Salvator Rosa che di Corso Vittorio Emanuele è la continuazione popolosa e congestionata in discesa verso quota zero incontriamo i vari aspetti di questa strada; prima residenziale e medio borghese poi di spartiacque fra il borghese di monte e il borghese di valle e, infine, di border line dei quartieri spagnoli.
E’ passato un fiume di anni da quando ero lì, testimone in pantaloni corti, del formicolare tipico di quei quartieri e la mia mente curiosa di bambino fotografava volti e fatti, registrava odori e suoni di quella zona allora così genuina. Appena potevo, con il pretesto delle caldarroste o della gomma americana, scappavo dall’élite di monte e, scortato da Cafora il fido fac totum di casa nostra, mi avventuravo fino alla border line dove, affacciato a un muretto, potevo osservare, finalmente il movimento.
Sicuramente era questa la parte più pittoresca del Corso, quella dove si percepiva l’odore del popolo che vive per strada e per strada commercia, cucina, comunica e dorme.
Dalla mia postazione io guardavo e spiavo queste scene o, perlomeno, quelle che avvenivano a ridosso del confine fra il quartiere spagnolo e il Corso Vittorio.
Mi divertivo, rielaboravo e pensavo a possibili scherzi. Quello era il mio cinema.
Fu così che conobbi Mucillo. L’avevo notato, a distanza, già prima di scavalcare il muretto e consumare la mia pacifica invasione di campo.
Mucillo era un venditore ambulante, un esemplare di una specie, allora, a Napoli, molto diffusa.
I venditori ambulanti invadevano la città. In teoria il cittadino non era tenuto ad uscire di casa per approvvigionarsi di quello di cui aveva bisogno. Ci pensava il venditore ad andare da lui. La città era ben divisa in modo da evitare concorrenze selvagge ed ogni quartiere aveva il suo fruttivendolo o il suo pescivendolo. Anzi più di un fruttivendolo e più di un pescivendolo perché uno, un giorno, aveva le pesche e un altro le melanzane; uno aveva i cefali e un altro le alici. Il loro modo di farsi riconoscere era quello di strillare una parola o una frase in maniera un po’ cantilenante per essere più facilmente riconoscibili. Ancora oggi, sulle spiagge d’estate siamo abituati a sentire i venditori di cocco urlare il loro “ cocco, cocco fresco!” e così era allora.
Oltre ai venditori di generi alimentari, ambulanti erano anche gli artigiani; tipici gli arrotini che qualche rara volta s’incontrano ancora oggi, gli ombrellai, e i riparatori di tapparelle. Tra questi ultimi ce n’era uno che s’annunciava con una poesia cantata, più che con una parola:
“ Mò s’ha infocato o soooole ! – ‘Na bbella perziaaana !”
E le note del tapparellista richiamavano quelle incantevoli ottocentesche della “Fenesta vascia” di L.G. Cottrau in cui un acquaiolo strilla: Belle femmene mee a chi vo’ acqua !
Insomma nel 1950, centoventi anni dopo Cottrau, Napoli era ancora la stessa; il lavoro a domicilio del cliente era la base dell’economia locale. E non ci si limitava ai venditori ambulanti e agli artigiani, persino i medici svolgevano la maggior parte del loro lavoro recandosi a casa del paziente.
A questo proposito va ricordato che Napoli è la città del caffè.
Quindi, recarsi in visita da qualcuno senza che il padrone di casa ti offrisse un caffè era cosa, a dir poco, scorretta e rifiutarlo era cosa, a dir poco, oltraggiosa. Immaginatevi un povero medico che nell’arco della giornata aveva bevuto un caffè per ogni visita fatta, a sera, che tenori di caffeina doveva avere nel sangue ! Ma non dovevano darsene troppa pena, evidentemente, se proprio loro, i medici, avevano diffuso la regola sui consumi giornalieri che recitava: mai meno di tre, mai più di trenta !
Il genere trattato da Mucillo erano i piedi di porco.
I piedi di porco erano, non so se sono ancora, sostanzialmente una schifezza e cioè, come dice la parola, la zampetta del maiale nell’ultimo tratto dove non c’è più neanche l’odore della carne; c’è solo osso e cotenna.
In quegli anni di povertà e di miseria la gente del popolo usava il piede di porco per fare il brodo. Un brodo povero, evidentemente, così poco saporito che vi si aggiungeva, in genere, ampie dosi di peperoncino per dargli un po’ di sapore.
Questo è tutto quello che so sui piedi di porco anche perché, pur avendone cercata menzione nella mia ricca biblioteca di cucina napoletana, non ho ottenuto risultati.
I venditori di “piedi” tenevano la merce, in un secchio di legno, immersi in un liquido che probabilmente era acqua salata e, alla vista, la cotenna appariva bianca e brufolosa come fosse un’orrenda pelle d’oca sotto una lente d’ingrandimento.
Il venditore portava il secchio sulla testa interponendo fra questa e il fondo uno straccio arrotolato a mo’ di cuscinetto.
I bambini, si sa, subiscono il fascino di tutte le schifezze e io non facevo eccezione.
La scena che vidi quel giorno, la prima volta che notai Mucillo, fu la stessa che rividi innumerevoli volte. Mucillo saliva la Salita San Nicola da Tolentino ed era già quasi arrivato all’angolo con Corso Vittorio Emanuele. Una voce dall’alto del palazzotto chiamò:
“ Mucìììì….”
Mucillo si fermò, con un movimento lento si tolse il secchio dalla testa e, tenendolo per mano, cominciò a scrutare in alto da dove fosse arrivato il richiamo.
S’affacciò una vecchietta da un secondo o terzo piano che chiese:
“ Mucì, tiene ‘e piére ?” (1)
“ Gnorsì “ rispose lui
“ A quanto ?” chiese l’acquirente
Mucillo dette il prezzo accompagnandolo da segni con le dita e il negozio era fatto.
La vecchietta calò un paniere con una corda dalla finestra, nel paniere c’erano i soldi, Mucillo prese i soldi, avvolse il piede con un pezzo di carta di giornale, lo mise nel paniere che la vecchietta tirò su rapidamente.
Mucillo fece gli ultimi passi della salita e si fermò come indeciso se proseguire su Vicolo San Nicola o su Corso Vittorio.
Era a pochi passi da me con la sua statura imponente, i capelli bianchi folti e con la sfumatura alta che gli conferiva l’aspetto di un vecchio bambino. Aveva degli occhi verde chiaro che spiccavano nel volto rugoso e abbronzato coperto da una barba brizzolata tipica di chi la barba se la fa solo la domenica. Il naso era quello del pugile, rivelava cioè di essersi rotto una volta e la dentatura sembrava quella di un cavallo con denti grandi e sporchi tipici di chi non ha l’abitudine di lavarli; probabilmente come molta gente del suo rango allora sarà stato solito massaggiarsi le gengive con la salvia ma senza spazzolare i denti. La corporatura era massiccia con un certo stomaco che tracimava al di sopra dei pantaloni a gamba larga probabile residuo della fine anni trenta. Le camicie erano sempre a quadri grossi colorati come ricavate da tovaglie d’osteria e le scarpe erano di fortuna, come capitava, in base a chi gliene avesse regalate un paio perché degne d’essere buttate.
D’inverno integrava questa tenuta con un gilè di fortuna e un cappotto di panno nero che aveva fatto almeno due guerre.
Essendosi fermato a due passi da me poggiò il secchio per terra come per riposarsi e io subito ne approfittai per saltare giù dal muretto e andare a curiosare; poi sfoderando quello che per me doveva essere il napoletano più intelligibile gli chiesi:
“ Voi come vi chiamate ?” anche perché mi era rimasto il dubbio su questo suo nome così inusuale.
“ Mucillo” rispose “e Voi?”
Mi prese chiaramente in contropiede perché mai nessuno mi aveva dato del Voi, comunque risposi senza troppa esitazione mentre continuavo a guardare ammaliato e schifato la sua merce:
“ Peppino !”
“ Bel nome, anche mio padre si chiamava Peppino”
“ Si ? Anche mio nonno ma…. che nome è Mucillo?”
“ Mucillo è un nome…..come fusse micillo; Vui ‘o sapite nu micillo che r’è?”
“ Si che lo so! Un micillo è un gattino.” dissi e, richiamato da Cafora, scappai via soddisfatto perché ormai l’amicizia era, a parer mio, consolidata.
Naturalmente nonostante il mio resoconto a casa dell’incontro fatto e della relativa amicizia, nonostante la curiosità espressa e tangibile per questo piede di porco, quest’ultimo, a casa nostra, non entrò mai. Ciò, tuttavia, non arrecò nocumento al mio rapporto con Mucillo perché avendo questi fatto breccia nel cuore dei miei genitori per effetto dei miei racconti, da quel momento, fu un continuo regalargli scarpe, pantaloni, camicie ed ogni sorta di indumenti smessi. Mucillo, per sdebitarsi, ogni volta contraccambiava con un piede ma Cafora provvedeva, opportunamente e per istruzioni ricevute, a farlo sparire.
L’idea dello scherzo da fare a Mucillo mi venne la volta che,avendolo io chiamato, “Mucìììì”, non visto, dalla mia postazione, osservai che lui si fermava, si toglieva lentamente il secchio dalla testa e, scrutando in alto tutt’attorno, diceva:
“Signò, che è ?”
Non comparendo nessuno alle finestre circostanti e non sentendo altri richiami, si rimetteva il secchio sulla testa e proseguiva.
La volta successiva mi nascosi dietro l’angolo del palazzo e chiamai:
“Mucìììì”
Stessa scena, lui cominciò a guardare per aria:
“Signò, che è ?”
Questa volta proseguii:
“Mucì, tiene e piére ?”
“E cumme no, Signò !”
“E cammina, cammina !”
Notai che fu sorpreso dallo scherzo che non s’aspettava. Forse era la prima volta. Chissà.
Si chinò, prese il secchio, se lo rimise sulla testa e borbottò, ma in modo che io potessi sentirlo:
“Chisto ha da esse chillu fetente ’e Peppiniello !”

Roma, Agosto 2008

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