Si è spento all'età di 98 anni, Giuseppe
Antonello Leone, pittore e scultore di fama internazionale, nella sua
abitazione di via Generale Parisi a Napoli.
Poche ore prima è andato in stampa il suo nuovo libro di poesie, 'Albe su muri a secco', con prefazione di Aldo Masullo e la postfazione di Gerardo Picardo, scritta tempo, che siamo in grado di anticipare in questo post:
Poche ore prima è andato in stampa il suo nuovo libro di poesie, 'Albe su muri a secco', con prefazione di Aldo Masullo e la postfazione di Gerardo Picardo, scritta tempo, che siamo in grado di anticipare in questo post:
Sulla pietra
squadrata
si mascherano
Dèi e Sirene,
le vele
delle navi
la pietra
squadrata
per
affondarla
in un teatro
di luce sofferta,
negli abissi
profondi.
La forza semplice dell’erba sciatizza
I Leone sono
una razza di sciamani. Raccontano contaminazioni, umanità e pensieri lunghi. Giuseppe
Antonello impasta versi come fa con i colori: li libera. Conosce il segreto del
bosso, la pianta dei labirinti, e sa – con Giordano Bruno – che niente resta
uguale dopo le maree. Per lui, come per il filosofo, ogni punto è centro. Alla
soglia dei 100 anni, il suo cuore è sempre abitato dalla passione per la
ricerca e non ha smesso di indicarci un sentiero, che cuce tradizione e futuro.
Antonello non ha rincorso speranze zoppe o roba corta: ha costruito muri a
secco. Alzati piano, con pazienza e mestiere, nella vita come nella ricerca
artistica. Lo ha fatto con impegno e fatica, facendo della propria storia una
filosofia, e una testimonianza capace di infuturarsi.
Le poesie
qui raccolte dicono il bisogno di riannodare un tempo, di ridefinire il frame di
una storia, non per inchiodarsi alla nostalgia o chiudersi a chiave nel
passato, ma per costruire ancora anticipazioni. La messa a terra di questo
discorso che dilata la voce del territorio è, infatti, la speranza. Fuochi di
brace per nuove avventure di pensiero. Vale per lui ciò che scrive Erri De
Luca: “Non siamo partiti di schiena”. Il cuore di Peppino ha sempre abitato tra
le nostre verdi montagne, i racconti dei vecchi, i fiumi che fanno rotolare i
sassi, tanto cari alla sua litosofia. Camminiamo tra antichi fronti e nuove
costellazioni. Mettiamo ancora due bicchieri di bianco d’uovo alla finestra, la
notte di S. Giovanni, e recitiamo formule antiche per allontanare il male.
Chiediamo un giorno di sole a un cielo di Santi. L’artista e poeta Giuseppe Leone
ci insegna che la vita non è fatta di un’unica corda. Ci ricorda che la terra
irpina è carne. Appartenenza e cultura. Radice che non gela.
Qui holzwege
è anche ankunft, arrivo a casa. Abitare responsabilmente questa ingiunzione
significa ascoltare il vento che porta le voci, e costruire – nel nostro tempo
– percorsi di umanità. Tra nomi stuorti e ianare, passiamo la carbonella sulla
pietra liscia. Per noi, come per i briganti, spesso il grano è stato mescolato
a polvere di calce, per impedirci di fare il pane. Ma nessuno si è arreso.
Al collo
portiamo un sacchetto di terra e i nostri morti. I boschi e le piazze di
pietra, i nostri portali antichi, non sono immagini fissate su lastre di
bromuro: sono luoghi dell’anima. Non siamo noi a cercarli, sono loro che ci
cercano. Ci bussano alle spalle, ricordandoci la grande sapienza contadina che
allaccia con il salice le viti, accanna legna per l’inverno e continua a
cantare nelle vene delle nostre donne e dei sogni che abbiamo tradito.
Molti di
questi versi li ho conservati a lungo. Dai tempi in cui, a Napoli, ogni giorno
andavo a trovare Peppino nella sua bottega di saggezza. Mi divertivo a
osservarlo, si muoveva come un gatto tra tele, colori, pietre e fogli. Lo
sorprendevo a scheggiare sassi raccolti nei fiumi d’Irpinia e della Lucania.
Andavamo per taverne come faceva con il suo amico Rocco Scotellaro, spesso solo
per un piatto di verdura che mi è rimasto nell�anima.
Lui
disegnava con il carboncino nero o componeva versi su pezzi di carta da pane o
su tovaglioli. Tante poesie sono nate così, e hanno dovuto attendere a lungo
prima di tornare a parlare su carta. Per tutti, come volevamo. In questa
raccolta, il rinascimentale artista dipinge un racconto di vicinanza alle lotte
umane. La sua adrenalina è la sfida intellettuale, che ha tanti punti di
ingresso. Oltre ai segmenti colorati delle sue competenze, c’è un Cenacolo di
artisti, pittori e pensatori che gravita attorno alla collina di Pizzofalcone,
di cui Peppe è maestro. Disegnano il miglio in avanti e mettono in circolo
ricerche profonde.
L’artista
conosce il demone della Cartiera e lo spirito del fiume Sabato, che narra
storie. Lui che ha lottato indossando il velluto dei contadini, continua a
lanciare dadi. Vive partenze e ritorni, con il mare dei viandanti. Ma ha
vissuto la storia con intensità, perciò le sue mani non hanno le righe dei
porti mancati.
Toglie
bende, getta sale di sapienza, resta un cercatore nel vento della sua e nostra
terra. “Cerco la sedia rossa in mezzo alla piazza”, scrive il vecchio saggio.
L’occhio è al futuro, alle uova del Drago che impiegano tempo per dischiudersi
ma poi raccontano un mondo. “Usciremo dall’arco/sul dirupo, a mani aperte”,
annota ancora Leone. La vita scorre, “i tre sordi della montagna hanno
cantato...”, e la verità non ha rughe. E allora: voce. “Voce alla foglia/che
vive,/non alla cenere voluta dai potenti,/tessitori di morte/sulle pietre del
tempo”.
Intanto “si
va dietro un chicco di grano,/arando le nuvole, tra mura dirute”. Una lezione
di vita che parla ai giovani: “Venite, fanciulli,/caricate sulle spalle una
pietra,/tracciate un cerchio infinito/per la città della luce,/dove l’abbraccio
senz’armi, dissoda la terra/e pianta grano/e miliardi di rose./Oltre la notte
l’alba”. Il cuore acceso nell’inverno “gioca d’assenza/per vivere tra
boschi/dove i lupi hanno fame”. Andiamo ancora con i nostri ricordi “per il
tratturo del monte”. Ascoltiamo la voce degli avi, “smarriti dietro aratri a
scassare la terra inaridita dal sole”.
Sappiamo che
occorre camminare ancora, cercare il tempo di dentro. E vivere. Allora, forse,
“il seme dell’erba sanguigna uscirà bandiera”. Ha ragione il poeta Leone: “Tra
le stoppie/un fuoco arde e un canto svanisce in luce”. Per lui anche il Nolano
diventa un “artigiano totale”, ascende “con la verità in attesa, ritrovando
quattrocento lune perdute/a Cuba,/senza ceneri./Sapevi che la foglia del gelso
nutre il baco da seta/e che il fico del baco,/tra le mani dell’uomo, conduce il
varco/dove passa la filosofia del dono”. Peppe è depositario di antiche
sapienze irpine: “So dove è impresso il singo/per entrare in paradiso: quel
tracciato lo segnò un vecchio cieco”. Ma Leone è anche e soprattutto movimento.
Cadenza i suoi versi sotto la stella della Kinesis: “Due montagne/sette le
grotte,/e un carro senza ruote che percorre la strada,/io, con le scarpe
consumate”. È una ballata di vita e un racconto di lotta. “D’agosto narrano di
vecchi arnesi; avventure di donne su un carro/con ruote di pietra che gira tre
volte/intorno al sacrato della Mefite/e della Vergine del Sauro”.
Sotto lune
saracene, canta “a finestre spalancate”. Scava nell’anima il pensiero di zia
Concetta, bianchissima e stanca: “Mia madre custodiva carbone per i nostri
ritorni./Scioglieva nodi con voce remota; nella terra della gramigna,/cercava
l’erba sciatizza/per auspici di pane contro la fame”.
Non sappiamo
dove porteranno i nostri sentieri: “Forse troveremo la pietra forata dal
fulmine, il seme nascosto del tempo che trattiene un mistero di luce”. Intanto
“le scatelle dei dubbi/ancora bruciano ebbrezze e peccati/dell’albero morto”.
Portiamo nelle tavole di carne del nostro cuore “pane mancato, e acque rapite”.
Sorride con
il suo viso forte, pieno di umanità. Lui, avanguardia e sperimentazione nel
lungo viaggio dell’inquieto Novecento, ha contribuito a formare una generazione
di ribelli. La sua lezione di vita fa compagnia. Come una voce cara e discreta,
che si ritrova all’alba: “Chiamatemi se vedete sulla strada stretta venire
l’incontaminato: egli sa consumare la pena/aspettando il sorriso della morte”.
Continuiamo a seguirlo, davanti al camino di pietra del nostro cuore zingaro.
Forse “per tamburare un tempo che torna. Vento tra venti”.
Dalla postfazione di Gerardo Picardo
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