Dieci adolescenti partigiani, guidati da un vecchio capitano che vede il
fantasma di Trotsky. Un anziano generale dei servizi segreti che dopo il
terremoto dell’Aquila, nel 2009, rivive quella storia filtrandola attraverso la
sua fantasia. Imprese rocambolesche, inseguimenti mozzafiato, amori giovanili,
salite sulle pareti rocciose, spionaggio ai danni dei nazisti, amicizia, presa
di coscienza, tradimenti: è questo il filo con cui è tessuto il romanzo
di Marco Dell’Omo “La Banda Gordon” (Nutrimenti editore), che per guardare alla
resistenza sceglie il linguaggio dell’avventura, con un occhio ai fumetti
degli anni 30 e 40.
D.: La banda Gordon è un romanzo sulla resistenza?
R.: No, la banda Gordon è un romanzo in cui si racconta il desiderio di essere liberi. I componenti della banda sono lì per vari motivi, alcuni sono più politicizzati, altri sono solo insofferenti verso le cerimonie del regime, ma tutti vogliono cogliere un’occasione di libertà. Le azioni della banda sono una preparazione alla resistenza, che comincia dopo la liberazione di Mussolini al Gran Sasso, l’evento che i nostri eroi progettano di impedire.
D.: Nel tuo romanzo un ruolo importante ce l’hanno i fumetti, a partire dal nome della Banda.
R.: Sai quanti partigiani come nome di battaglia avevano scelto Gordon, o Mandrake, o Phantom? Decine, centinaia. Un’intera generazione aveva letto le storie di quegli eroi americani, finché non furono censurate dal fascismo nel 1938, e con loro avevano sognato l’avventura, l’erotismo, la fantasia. Ho cercato di scrivere una storia a partire da questo retroterra, che viene prima della scelta politica ma che rappresentava l’orizzonte di moltissimi ragazzi di quegli anni. Tra l’altro i partigiani, molto spesso, erano davvero giovanissimi: molti di loro sapevano poco di Marx, ma tutti erano stati lettori dell’Avventuroso. Diciamo che ho scelto un angolo di osservazione diverso dal solito per parlare di quel periodo storico. E’ stata una scommessa: ho rinunciato al realismo, ho scelto il linguaggio dell’avventura.
D.: Mi sembra che la banda Gordon sia un romanzo di formazione, la crescita di un gruppo di amici attraverso il fuoco della resistenza
R.: Più che di formazione, espressione che a me non piace perché sembra che ci sia qualcuno in cattedra che trasmette degli insegnamenti e qualcun altro che li apprende, direi che è un romanzo di trasformazione. I partigiani-ragazzini che vivono l’esperienza della banda sono artefici del loro destino, e cambiano mano a mano che quel destino si compie. Scoprono che il gusto dell’avventura può essere elettrizzante, ma arriva il momento in cui devi decidere se un uomo deve morire.
D.: Qua e là affiora il dialetto che si parla all’Aquila
R.: La storia della banda si svolge a l’Aquila e nei suoi dintorni nel 1942 e nel 1943. Il dialetto aquilano è tagliente e concreto, mi sembrava un peccato rinunciare alla sua ricchezza espressiva per descrivere certe situazioni in cui non c’è tempo da perdere, specie sulle montagne dove si addestra la banda.
D.: Questo è anche un romanzo sull’arte del ricordo, praticata dal protagonista da vecchio
R.: Il generale Vinci, cioè Piero settant’anni dopo, è l’ex giovane gentile
diventato un vecchio burbero e insolente. Lui per primo non sa quanto ci sia di
fantasioso nei suoi ricordi. Ma non è quello che capita a tutti noi
quando ricostruiamo la nostra storia?
Nessun commento:
Posta un commento